“Avete presente «Bobby Jean», da Born in the USA? C’è lui che telefona a questa ragazza ma lei sono anni che ha lasciato la città, e lui ci resta male di non averlo saputo, perché avrebbe voluto salutarla, e dirle che sentiva la sua mancanza, e augurarle buona fortuna. A questo punto c’è uno di quegli assolo di sax che ti viene la pelle d’oca, se ti piacciono gli assolo di sax. E Bruce Springsteen. Beh, vorrei che la mia vita fosse come una canzone di Bruce Springsteen. Almeno per una volta”.
Con queste poche righe, affidate alla voce del protagonista di “Alta Fedeltà”, Nick Hornby racconta la straordinaria bellezza di questa canzone, pubblicata nel 1984 nell’album “Born in the USA”. È la storia di un tenero amore adolescenziale (“Io e te ci conoscevamo sin da quando avevamo sedici anni”), della quale ormai è rimasto solo il ricordo del protagonista (“Camminavamo nella pioggia parlando del dolore che avevamo nascosto al mondo”) e il rimpianto per averla persa (“adesso non c’è nessuna persona, nessun luogo, nessuno mi capirà mai come facevi tu”). A lui e a Bobby Jean piacevano “la stessa musica, le stesse bands, gli stessi vestiti”, ed è un peccato che lui non abbia saputo della partenza di lei (“Speravo che l’avrei saputo, speravo che ti avrei potuto chiamare, soltanto per dirti ciao”). A questo punto il protagonista si domanda dove possa essere la ragazza (“Può darsi che tu sia qua fuori o da qualche parte su quella strada, in qualche autobus o treno, viaggiando lontano”), e si risponde che probabilmente è finita “in qualche stanza di un motel dove ci potrà essere una radio che suona”. È questo il modo di lui per dirle addio dunque, non al telefono, non di persona, ma attraverso le parole di questa canzone, che il ragazzo spera che lei, ovunque sia, possa ascoltare: “se è così sappi che sto pensando a te e a tutte le miglia tra noi, e ti sto giusto chiamando un’ultima volta non per farti cambiare idea, ma solo per dirti che mi manchi: buona fortuna, addio, Bobby Jean”.
Qui il crescendo al pianoforte lascia spazio al sax di Clarence Clemons, che fa venire davvero la pelle d’oca, come scrive Nick Hornby. E a questo punto, mentre il sax continua il suo lamento d’addio dedicato alla cara Bobby Jean, anche noi sentiamo fortemente il desiderio che la nostra vita fosse una canzone di Bruce Springsteen, almeno per una volta.
David Bowie – Space Oddity
Negli anni 90 era difficile essere adolescenti, e probabilmente lo è tuttora, come lo era negli anni sessanta, settanta e ottanta. Come lo è stato probabilmente nel 1969, anno di Space Oddity, primo singolo tratto dall’album omonimo. Forse è per questo che una quindicina di anni fa ascoltavo questa canzone ininterrottamente, per accompagnare quel senso di nonsoche di cui ci nutrivamo all’epoca. David Bowie, influenzato dal senso di isolamento e di alienazione trasmessogli da “2001 A Space Odissey” di Stanley Kubrick, incide così uno dei singoli più importanti della sua carriera: la storia di un astronauta perso nello spazio, solo e lontano.
Tutta la prima parte è incentrata sul viaggio spaziale del Maggiore Tom, il protagonista della canzone. La torre di controllo prepara il suo astronauta alla partenza (“prendi le tue proteine e mettiti il casco”, “accendi i motori, controlla l’accensione”) mentre in sottofondo si ascolta il countdown. Un’esplosione di suoni indica che l’astronave è partita, e che Tom è finalmente nello spazio, seguito dalla sua celebrità (“Ce l’hai proprio fatta e i giornali vogliono sapere quale maglietta indossi”). Il Major Tom di Bowie lascia così la capsula e comunica alla torre di controllo che sta uscendo dalla porta per galleggiare nello spazio: le stelle però sembrano diverse. Tom comincia così a sentirsi pervaso da una strana sensazione (“Sto seduto in un barattolo di latta, lontano sopra il mondo: il pianeta Terra è triste e non c’è niente che io possa fare”), come se il suo destino fosse ormai scritto (“Penso che la mia astronave sappia dove andare”). La consapevolezza di non poter più tornare sulla Terra è confermata dalle più classiche delle parole d’addio (“Dite a mia moglie che la amo tanto, lei lo sa”).
Interviene nuovamente la torre di controllo, per comunicare all’astronauta che il suo circuito si è spento e c’è qualcosa che non va, ma il collegamento non riesce (“Mi senti, Maggiore Tom? Mi senti, Maggiore Tom? Mi senti, Maggiore Tom? Mi senti..?”). Tom non può più sentire, è ormai in preda all’alienazione, e continua così il suo viaggio, abbandonato al suo destino. “Planet Earth is blue and there’s nothing I can do”.