Bruce Springsteen – Bobby Jean

“Avete presente «Bobby Jean», da Born in the USA? C’è lui che telefona a questa ragazza ma lei sono anni che ha lasciato la città, e lui ci resta male di non averlo saputo, perché avrebbe voluto salutarla, e dirle che sentiva la sua mancanza, e augurarle buona fortuna. A questo punto c’è uno di quegli assolo di sax che ti viene la pelle d’oca, se ti piacciono gli assolo di sax. E Bruce Springsteen. Beh, vorrei che la mia vita fosse come una canzone di Bruce Springsteen. Almeno per una volta”.

Con queste poche righe, affidate alla voce del protagonista di “Alta Fedeltà”, Nick Hornby racconta la straordinaria bellezza di questa canzone, pubblicata nel 1984 nell’album “Born in the USA”. È la storia di un tenero amore adolescenziale (“Io e te ci conoscevamo sin da quando avevamo sedici anni”), della quale ormai è rimasto solo il ricordo del protagonista (“Camminavamo nella pioggia parlando del dolore che avevamo nascosto al mondo”) e il rimpianto per averla persa (“adesso non c’è nessuna persona, nessun luogo, nessuno mi capirà mai come facevi tu”). A lui e a Bobby Jean piacevano “la stessa musica, le stesse bands, gli stessi vestiti”, ed è un peccato che lui non abbia saputo della partenza di lei (“Speravo che l’avrei saputo, speravo che ti avrei potuto chiamare, soltanto per dirti ciao”). A questo punto il protagonista si domanda dove possa essere la ragazza (“Può darsi che tu sia qua fuori o da qualche parte su quella strada, in qualche autobus o treno, viaggiando lontano”), e si risponde che probabilmente è finita “in qualche stanza di un motel dove ci potrà essere una radio che suona”. È questo il modo di lui per dirle addio dunque, non al telefono, non di persona, ma attraverso le parole di questa canzone, che il ragazzo spera che lei, ovunque sia, possa ascoltare: “se è così sappi che sto pensando a te e a tutte le miglia tra noi, e ti sto giusto chiamando un’ultima volta non per farti cambiare idea, ma solo per dirti che mi manchi: buona fortuna, addio, Bobby Jean”.

Qui il crescendo al pianoforte lascia spazio al sax di Clarence Clemons, che fa venire davvero la pelle d’oca, come scrive Nick Hornby. E a questo punto, mentre il sax continua il suo lamento d’addio dedicato alla cara Bobby Jean, anche noi sentiamo fortemente il desiderio che la nostra vita fosse una canzone di Bruce Springsteen, almeno per una volta.

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David Bowie – Heroes

Ancora una canzone di Bowie, ma oggi è doverosa: l’11 maggio festeggio il mio personale Bowie-Day. Era proprio un 11 maggio quando tanti, ma tanti anni fa, il mio amico Marco arrivò in casa mia con un paio di cd del Duca Bianco. Cominciai ad ascoltarli e fu subito colpo di fulmine: per molti anni Life on Mars? divenne la mia canzone preferita, Space Oddity raccontava tanto di me, adoravo adagiarmi sulle note di Rock n roll suicide e caricarmi con Rebel Rebel. Oggi è 11 maggio, e domani quel mio amico si sposa. A lui e alla sua Paola dedico questo post, e questa canzone.

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David Bowie – Space Oddity

Negli anni 90 era difficile essere adolescenti, e probabilmente lo è tuttora, come lo era negli anni sessanta, settanta e ottanta. Come lo è stato  probabilmente nel 1969, anno di Space Oddity, primo singolo tratto dall’album omonimo. Forse è per questo che una quindicina di anni fa ascoltavo questa canzone ininterrottamente, per accompagnare quel senso di nonsoche di cui ci nutrivamo all’epoca. David Bowie, influenzato dal senso di isolamento e di alienazione trasmessogli da “2001 A Space Odissey” di Stanley Kubrick, incide così uno dei singoli più importanti della sua carriera: la storia di un astronauta perso nello spazio, solo e lontano.

Tutta la prima parte è incentrata sul viaggio spaziale del Maggiore Tom, il protagonista della canzone. La torre di controllo prepara il suo astronauta alla partenza (“prendi le tue proteine e mettiti il casco”, “accendi i motori, controlla l’accensione”) mentre in sottofondo si ascolta il countdown. Un’esplosione di suoni indica che l’astronave è partita, e che Tom è finalmente nello spazio, seguito dalla sua celebrità (“Ce l’hai proprio fatta e i giornali vogliono sapere quale maglietta indossi”). Il Major Tom di Bowie lascia così la capsula e comunica alla torre di controllo che sta uscendo dalla porta per galleggiare nello spazio: le stelle però sembrano diverse. Tom comincia così a sentirsi pervaso da una strana sensazione (“Sto seduto in un barattolo di latta, lontano sopra il mondo: il pianeta Terra è triste e non c’è niente che io possa fare”), come se il suo destino fosse ormai scritto (“Penso che la mia astronave sappia dove andare”). La consapevolezza di non poter più tornare sulla Terra è confermata dalle più classiche delle parole d’addio (“Dite a mia moglie che la amo tanto, lei lo sa”).

Interviene nuovamente la torre di controllo, per comunicare all’astronauta che il suo circuito si è spento e c’è qualcosa che non va, ma il collegamento non riesce (“Mi senti, Maggiore Tom? Mi senti, Maggiore Tom? Mi senti, Maggiore Tom? Mi senti..?”). Tom non può più sentire, è ormai in preda all’alienazione, e continua così il suo viaggio, abbandonato al suo destino. “Planet Earth is blue and there’s nothing I can do”.

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Eddie Vedder – Guaranteed

Eddie Vedder racconta la libertà di “Into the Wild”, traducendo in musica le meravigliose immagini di Sean Penn. Siamo nel 2007, e io ancora non sapevo che quattro anni dopo avrei affidato a questa canzone e a queste parole il compito di dar voce alla mia voglia di partire, a far da sottofondo alla mia partenza per il Sudamerica con un biglietto di sola andata.

Quello di Vedder è un vero e proprio inno alla libertà, ispirato ovviamente alla storia di Christopher McCandless (o Alexander Supertramp, come si faceva chiamare durante il suo viaggio verso le terre selvagge). La canzone inizia con un pensiero sul presente (“Inginocchiato non c’è modo di essere libero”) e uno sguardo al domani (“sollevando una tazza vuota chiedo silenziosamente che tutte le mie destinazioni accettino ciò che sono”), prosegue con una considerazione sulla società (“Cerchi si espandono e ingoiano le persone per intero, per metà delle loro vite dicono buonanotte a mogli che non conosceranno mai”) e uno sguardo dentro se stesso (“ho una mente piena di domande ed un insegnante nella mia anima, così va la vita”). Il protagonista pensa che non c’è nulla che lo trattiene dal partire, forse una persona, che però preferisce tenere a distanza (“Non avvicinarti di più o dovrò andarmene, certi posti mi attraggono come la gravità, ma se mai ci fosse qualcuno per cui restare a casa, saresti tu”). Ed è così che finalmente il viaggio comincia (“Tutti quelli che incontro, in gabbie che hanno comprato, pensano a me e al mio girovagare, ma io non sono mai quello che pensano”), i pensieri cominciano a farsi più limpidi (“Ho la mia indignazione, ma sono puro in tutti i miei pensieri, sono vivo”) finché un’ondata di serenità avvolge il personaggio della canzone (“Vento tra i miei capelli, mi sento parte di ovunque, sotto il mio essere c’è una strada che è scomparsa”), finalmente libero dalle catene e dalle regole non scritte della società (“Lascia che mi occupi io di trovare un modo di essere, considerami un satellite, in orbita per sempre; conoscevo tutte le regole, ma le regole non conoscevano me”). E il viaggio continua, con il vento tra i capelli, gli alberi di notte, gli incontri, le persone, la bellezza di sentire la propria vita in una mano, lassù nel cielo, tra le stelle, e in tutto ciò che ci circonda. Garantito.

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Leonard Cohen – I’m your man

Pubblicata nel 1988 nell’omonimo album, I’m your man è senza dubbio una delle poesie in musica più belle scritte da Leonard Cohen. Una dichiarazione di resa totale nei confronti del suo amore. Una sorta di “fai di me ciò che vuoi”, di “zerbinaggio” maschile per una ragazza, ma soprattutto una splendida poesia d’amore nei confronti di qualcuno che ti ha lasciato, e lo ha fatto principalmente per colpa tua (“stavo scorrendo le promesse che ti ho fatto e che non posso mantenere”).

Perciò se vuoi un amante, lui farà ogni cosa gli chiederai, e se vuoi un altro tipo di amore, lui metterà una maschera per te. Se vuoi un partner prendigli la mano, e se vuoi abbatterlo mentre sei in collera, lui è lì: “io sono qui, sono il tuo uomo”. E così, “se vuoi un pugile, salirò sul ring per te; se vuoi un dottore, ti esaminerò ogni centimetro; se vuoi un pilota, salta dentro, o se vuoi usarmi per un giro, sai che puoi, sono qui”. E se addirittura “vuoi un padre per il tuo bambino”, o solo camminare con lui per qualche istante sopra la sabbia… “Sono il tuo uomo”, dice il protagonista della canzone.

Il mood della canzone ci fa però capire che è troppo tardi: “Ma un uomo non avrà mai una ragazza indietro, non di certo mendicando sulle ginocchia”. E così deve accontentarsi di “ululare alla tua bellezza come un cane in calore”. Sarai pure il suo uomo, ma un po’ d’orgoglio, no?

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Bob Dylan – Don’t think twice it’s all right

Avevo compiuto da poco diciotto anni quando comprai in una bancarella una raccolta di successi di Bob Dylan. Ai tempi andavo in giro con uno scomodissimo lettore cd portatile, e la voce di Dylan mi accompagnava nel tragitto che mi portava fino a scuola. Amavo particolarmente questa vecchia canzone del 1965, e quando finiva non di rado schiacciavo il piccolo pulsante grigio sul lettore cd per farla ricominciare. È la storia di un ragazzo ferito, deluso da una ragazza che ha preteso troppo da lui (“le ho dato il mio cuore ma lei voleva la mia anima”), per la quale però non porta rancore, come da titolo (“non pensarci troppo, va tutto bene”).

“Non serve stare seduta a chiederti perché, ad ogni modo non è il caso”, canta il protagonista alla ragazza, “tu sei il motivo per il quale vado via”. Il ragazzo della storia continua a sfogare la sua delusione, strofa dopo strofa: “Non serve accendere la tua luce, quella luce che non ho mai visto”, “ancora speravo che ci fosse qualcosa che tu potessi fare o dire per farmi cambiare idea e restare”. Ma in tutto ciò, ammette anche le sue colpe: “Noi non abbiamo mai parlato abbastanza”. E così non serve più che lei gridi il suo nome, come non ha mai fatto prima, perché il protagonista ormai non può (e non vuole, aggiungo io) più sentirla. E così per il ragazzo arriva il momento di chiudere con il passato, con un po’ di amarezza, non con un ciao e neanche con un arrivederci, ma con un addio in piena regola: “Sto camminando per questa lunga e solitaria strada, ma dove sono diretto non posso dirtelo, ciao è una parola troppo bella, così ti dirò semplicemente addio. Non sto dicendo che mi hai trattato male, avresti potuto fare di meglio, ma non importa, hai solamente sprecato il mio tempo prezioso”.

La chitarra continua così il suo arpeggio allegro e all’apparenza sereno, il suono dell’armonica invece ripensa ai momenti con lei, mentre il protagonista continua a camminare per la sua strada, lunga e solitaria. Ma non pensarci troppo, va tutto bene.

PS: Il video è tratto da un live del 1965, poiché su YouTube non si trova la versione originale della canzone, che però potete sentire qui. Di questa canzone esistono decine e decine di cover, da Johnny Cash a Nick Drake, ma vi segnalo in particolare la splendida versione di Johnny Marr, chitarrista degli Smiths, che potete ascoltare qui.

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Janis Joplin – Me and Bobby McGee

“I’d trade all of my tomorrows, for one single yesterday”. Non è William Shakespeare, e non è John Keats: siamo nel 1969, e il poeta è Kris Kristofferson. Un anno più tardi la sua donna, una certa Janis Joplin, gli “ruba” la canzone, cambia la Bobbie del titolo nel maschile Bobby, e grazie alla sua voce, alla sua grinta, alla sua disperazione, regala questo pezzo alla storia della musica, proprio pochi giorni prima di morire, come se la sua richiesta di scambiare tutti i suoi domani con un singolo ieri fosse stata accolta.

Ho un debole per le canzoni on the road, questo è chiaro, e anche in Me and Bobby McGee l’atmosfera sembra emergere da un romanzo di Jack Kerouac: “Ero stesa, sfinita, a Baton Rouge, aspettando un treno. Mi sentivo sbiadita come i miei jeans, Bobby faceva autostop, e proprio prima che piovesse un diesel ci portò fino a New Orleans”. Nei ricordi della protagonista la musica ha immediatamente un ruolo importante: “Ho tirato fuori la mia armonica dalla mia sporca bandana rossa, stavo suonando piano mentre Bobby cantava pezzi blues, tenendo il tempo dei tergicristalli sul parabrezza”. La leggerezza della vita on the road di questi due vagabondi (“Tenevo la mano di Bobby nella mia, cantavamo ogni canzone che conosceva l’automobilista”) comincia a sfumare in un grido nostalgico (“Libertà è soltanto un’altra parola per non lasciar perdere niente, niente significa niente se non si è liberi”) fino a sottolineare un presente infelice (“Sentirsi bene era facile, quando lui cantava pezzi blues, e tu sai che sentirmi bene era abbastanza buono per me”).

E così, nel ricordo delle miniere del Kentucky, o del sole della California, dove Bobby condivideva i segreti dell’anima della protagonista, arriva finalmente il momento della separazione: “Un giorno vicino Salinas l’ho lasciato scivolare via, lui stava cercando quella casa, e spero che l’abbia trovata”. Dopo l’ultimo ritornello la canzone si lascia andare dapprima ad una disperata malinconia, ma lentamente sale di intensità, si abbandona all’ebbrezza del ricordo, rappresentato da un irrefrenabile e meraviglioso assolo di pianoforte: chissà Janis se sarà valsa la pena di viverlo, quel singolo ieri.

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Ennio Morricone – C’era una volta il West

Oggi, un anno fa esatto. Uno dei momenti più particolari che io riesca a ricordare, che unisce in un colpo solo il mio amore per i viaggi, per il cinema e per la musica. Ero al termine di un viaggio mirabolante a New York, dove ormai pensavo di aver già esaurito la scorta di emozioni a mia disposizione, ma mi sbagliavo. Seduto sull’aereo, poco prima del decollo, ho immediatamente dato una rapida occhiata ai film disponibili sul monitor del sedile, per vedere come avrei potuto passare le seguenti, interminabili, ore di viaggio. Ho selezionato “C’era una volta il West” di Sergio Leone, un film che amo, e ho atteso la partenza. Proprio il momento del decollo è coinciso con la scena dell’arrivo alla stazione di Claudia Cardinale, con la musica di Ennio Morricone ad accompagnare quell’indimenticabile sequenza. Ed è proprio lì, su quelle note, che l’aereo è decollato: ho guardato fuori dal finestrino per gettare un ultimo sguardo sulla Grande Mela, e lo skyline di Manhattan mi ha salutato con un tramonto rosso fuoco alle sue spalle. Il mio addio a New York dopo dieci splendidi giorni, e quella musica in sottofondo, che per un momento mi ha dato l’impressione di vivere dentro un bellissimo film. Più facile viverlo che descriverlo.

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Bruce Springsteen – Thunder Road

L’incipit è affidato a un duetto di armonica e pianoforte. Il piano sembra raccontare la leggerezza di Mary che balla sotto la veranda, mentre la malinconia del protagonista è affidata al suono dell’armonica, o almeno questo è ciò che ho sempre pensato. Le immagini che emergono dalle prime strofe fanno pensare ad un film, oppure ad un racconto di Kerouac: “la porta a vetri sbatte, il vestito di Mary svolazza, come una visione lei danza sotto la veranda, mentre la radio è accesa. Roy Orbison canta per quelli che si sentono soli come me, e tutto ciò che voglio sei tu: non rimandarmi a casa, non posso proprio stare là da solo”.

Il titolo della canzone è tratto da un film del 1958 con Robert Mitchum, le parole della canzone raccontano in prima persona il sogno di un ragazzo di provincia, i suoi tentativi per convincere la sua Mary (che non sarà una bellezza ma a lui va bene così) a montare in macchina per andare via dal loro paesetto e cercare di vivere finalmente le loro vite, sfruttando “l’ultima possibilità per rendere reali i sogni” (il tema si lega perfettamente a quello di un altro successo di Springsteen, “Born to Run”, che è presente nello stesso album omonimo del 1975). Il contesto iniziale è molto malinconico e nostalgico, ma pur restando una canzone romantica da un certo punto di vista si può interpretare come una canzone sul riscatto (“questa strada a due corsie ci porterà ovunque vogliamo”), sulla libertà (“cos’altro ci rimane da fare se non tirare giù il finestrino e lasciare che il vento spinga indietro i tuoi capelli”) e sull’età (“così hai paura e pensi che non siamo più tanto giovani”). Musicalmente invece è una canzone che si differenzia totalmente dalla struttura tradizionale strofa-ritornello: l’arrangiamento del pezzo infatti aumenta gradualmente di intensità, di strumenti e di ritmo man mano che va avanti il suo incedere. Thunder Road come detto si apre con un pianoforte e un’armonica, e si conclude cinque minuti dopo con un duetto di pianoforte e sassofono, inoltre il titolo della canzone compare solo in un verso, intorno alla metà, e non viene più nominato sino al termine.

Nel 2004 la radio dell’Università della Pennsylvania ha piazzato Thunder Road al primo posto tra le “855 più grandi canzoni di tutti i tempi”, mentre la rivista Rolling Stones l’ha piazzata alla posizione 83 nella sua lista delle 500 più grandi canzoni. Julia Roberts una volta ha detto che il verso di una canzone che più la rappresenta è proprio un verso di Thunder Road (“you ain’t a beauty, but hey, you’re alright”), mentre Nick Hornby l’ha inserita nel suo libro “31 Canzoni”, definendola come la sua canzone preferita, quella che più lo rappresenta, quella che ha ascoltato più volte in assoluto in tutta la sua vita (circa millecinquecento volte, contando una volta a settimana per un quarto di secolo e considerando gli ascolti a catena dei primi anni, come scrive lo stesso scrittore). Inoltre per Hornby Thunder Road è stata la risposta ad ogni lettera di rifiuto delle case editrici e ad ogni dubbio espresso da amici e parenti.

Io l’ho scoperta tanti anni fa, proprio leggendo questo libro, l’ho ascoltata per curiosità e da allora è diventata l’ennesima “mia” canzone, in modo dirompente, quasi ossessivo, fino a diventare la mia canzone preferita in assoluto. “Perciò Mary, salta dentro: è una città piena di perdenti e io me ne sto andando per vincere”. E sono brividi forti.

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Pearl Jam – Yellow Ledbetter

Ancora un blog, lo so, non se ne può più. Il problema è che non ne posso fare a meno. Scrivere di cinema non mi bastava, e così ho cominciato a scrivere di viaggi. Scrivere anche di viaggi non era abbastanza, perché c’era ancora qualcosa che per me è importante tanto quanto viaggiare e vedere film, se non di più, e sentivo il bisogno di raccontarla a modo mio: la musica.

In particolare qui si parla di canzoni, dei testi e delle parole, delle sensazioni e delle emozioni, del curioso rapporto che si forma tra me e una canzone, il legame con la vita quotidiana e l’importanza che hanno all’interno di essa. C’è sempre una canzone che nel bel mezzo di una giornata grigia ci risolleva il morale, riportandoci il sorriso, così come c’è sempre una canzone triste nel cuore di ogni persona romantica, una di quelle che si ascoltano in treno, vicino al finestrino, mentre fuori piove. Ci sono quelle canzoni da cantare a squarciagola in macchina, con i vetri abbassati e il vento nei capelli, altre che passano per caso in una radio, in un momento particolare, e ti restano dentro per sempre. Beh, più o meno, è di questo che si parla qui.

“Yellow Ledbetter” dunque, un omaggio ai Pearl Jam, un nome che all’apparenza non significa niente, ma che invece significa tanto. Un nome che in fondo suona bene per un blog, e poi la canzone è stupenda.

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